
Il piccolo villaggio di Limbico sorgeva tra le montagne che collegavano i continenti, ed era un luogo che pareva vivere di vita propria. Talvolta mostrava un sorriso beffardo e si estendeva fin dove lo consentisse il bagliore della luna d’estate; altre volte comandava che i ruscelli sgorgassero tra gli alberi secchi della foresta.
Era un luogo ospitale che attirava i viaggiatori per la sua eterna estate, ma i limbicesi erano il suo esatto opposto: scostanti e ruvidi, irsuti e sempre immusoniti nonostante conoscessero soltanto il sole e non avessero mai potuto vedere l’uomo della luna che secondo le leggende regalava la neve. Erano quindi sempre chini sulle zappe per coltivare la terra dura e cercare di mangiar qualcosa.
Scontento del rude atteggiamento dei limbicesi, che avevano scavato le proprie case sotto terra e passavano lì la maggior parte del tempo, Limbico, molto volubile e vanitoso, in una notte si adoperò per realizzare un proprio desiderio. Chiese al vento di sollevarsi nel prato di violette ad Ovest e di dar forma umana alla rugiada che si sarebbe sollevata.
L’acqua, libertina e giocosa prese quindi dolcemente la forma di un braccio, poi di una gamba, di una schiena dritta e flessuosa come un arco. La pelle della ragazza di rugiada, quando questa si svegliò nell’erba, scintillava nella notte come fosse stata un mantello di stelle. Persino la luna nel vedere quello spettacolo donò ai suoi capelli il colore argenteo dei propri riflessi.
Limbico sciolse tutta la propria ritrosia nel vedere che lo salutava baciandone la terra: le donò un cuore fatto di fiori e scintillanti lucciole perché avesse sempre l’animo dolce e illuminato dalla purezza. Quel paesino sperduto e la natura assieme a lui si augurarono quindi che la ragazza avesse una vita lunga, durante la quale avrebbe potuto condividere il suo sorriso con i rocciosi limbicesi, e portare anche a loro un po’ di gioia.
Al sorgere del sole, lei avvertì per la prima volta degli strani brividi sulla pelle: non aveva mai visto il volto della natura che le aveva dato la vita con tutta quella luce e si accorse che sapeva istintivamente riconoscere ogni albero, foglia o fiore. Alzando lo sguardo al cielo fece per chiedere spiegazioni alla luna sulle proprie origini, ma la trovò oscurata da un astro ben più luminoso, che spargeva i suoi raggi caldi in ogni direzione, e si rese conto che quelle carezze diffuse venivano dal sole. Non ne ebbe paura, il suo cuore si riempì di meraviglia e parve farsi più caldo mentre batteva contro la pelle all’altezza del petto.
Notò quindi solo in quel momento che tutt’attorno a lei si era radunata una folla che la scrutava guardinga, sorpresa dalla sua forma quasi invisibile e impalpabile alla luce del giorno. Il silenzio che si era creato nel cerchio di persone la spinse a rivolgere loro un inchino e il suo sorriso più sincero.
La ragazza della luna sentiva uno strano disagio, qualcosa di molto simile al senso di bruciore che si avverte quando ci si avvicina troppo al fuoco. Allungò quindi una mano verso i curiosi e la mosse in segno di saluto. Il suo cuore fu stretto in una morsa di dolore e paura nel vedere che la mano stava perdendo forma, evaporando al tepore mattutino!
Dalla folla di limbicesi si levò un mormorio confuso e spaventato. Quella donna era forse una nuova punizione di Limbico per insegnare loro che la bellezza esisteva ed era anche fragile? Molti si allontanarono sdegnati, altri spaventati, ma i bambini le si fecero attorno per provare a farla accovacciare nell’erba e coprirla facendole ombra.
D’un tratto sussurrarono qualcosa, che ripetuto a bassa voce e con stupore parve prendere vita: Civinande. Il nome che usavano per il canto dell’acqua che invocavano sulla terra con la speranza che la rendesse più dolce e pronta a dar loro del cibo.
A quel gesto, il cuore di un limbicese che passava di lì vibrò e si colmò di compassione: si fece largo tra i bambini e portò Civinande con sé al sicuro nella sua casa scavata nella terra.
Lì la ragazza di rugiada, come fosse appena nata, conobbe il mondo, il calore di una casa e la bellezza di un sorriso umano, e capì che Limbico sbagliava: i suoi cittadini erano capaci di amare.
Il cuore di lei sparse un profumo di fiori ovunque e quando giunse la notte uscì dalla casa nella terra dell’uomo per ripagarlo della sua premura esaudendo un suo desiderio. Andò perciò nella radura dove aveva preso forma quella notte e pregò l’uomo della luna, che stava seduto sulla falce, il profilo nero contro il cielo violetto, di far scendere la neve.
Non ne aveva la capacità, disse, contrariamente a quanto si pensasse, ma lei poteva, offrendo la brina della sua pelle al cielo. Civinande ebbe paura di quella risposta, però in ricordo della gentilezza del limbicese, stese le braccia verso l’alto e mentre la sua forma corporea si dissolveva, la prima neve di quello che da allora fu chiamato inverno scese sul terreno.
Martina Conti