
Signorina Ida aveva 73 anni. Non si era mai sposata, né aveva avuto figli. Girava la voce che fosse tanto sfortunata in amore quanto fortunata nel gioco. Aveva, infatti, vinto un cospicuo premio in monete d’oro, ma generosa com’era l’aveva presto sperperato per ristrutturare il palazzo in cui abitava in un minuscolo appartamento di sua proprietà.
Signorina Ida era una donna minuta, dalla pelle lentigginosa e raggrinzita sotto il peso dell’età, leggermente ingobbita dopo aver passato una vita intera sui libri. Nel condominio non c’era un bimbo, se per questo nemmeno un adulto, inclusi mia sorella e io, che non l’aveva incontrata sul cammino della vita. Per tutti noi era una roccia, un punto di riferimento. Per questo quando scoprimmo che stava male facemmo di tutto per alleviare ogni sua pena.
Quella mattina toccò proprio a me portarle la busta della spesa. Su raccomandazione di mia madre passai anche dall’edicolante per prendere un libro di Camilleri, in uscita insieme al giornale, perché signorina Ida d’estate leggeva solo gialli. Non potei evitare di chiedermi come facesse vista la sua cagionevole salute, e senza occhiali poi. Bussai alla porta. Dopo un po’, come un tremolio improvviso, mi raggiunse la sua voce flebile. È aperto, disse. Entrai a passo lento e strascicato, guardandomi di continuo intorno.
Era la prima volta che visitavo signorina Ida, di solito era compito di mia sorella. Fui piacevolmente colpito alla vista di libri. La stanza grande, che fungeva da soggiorno, ne era piena. Una libreria in mogano scuro occupava l’intera parete, ma anche sul tavolo e sulle sedie si trovavano diversi plichi, alcuni alti, alcuni bassi, vagamente somiglianti ai palazzi di lego che costruivo da piccolo. Sull’altra, invece, dominava una stampa de I girasoli di Van Gogh.
Signorina Ida era seduta nella sua poltrona, le gambe avvolte nella coperta di lana, in mano una fotografia sbiadita, lo sguardo perso chissà dove. La salutai con un buongiorno pronunciato a denti stretti, prima di correre in cucina a mettere in ordini gli acquisti. Quando tornai con il giornale, si ritrasse dal tepore mattutino e i suoi occhi brillarono come due fari appena accesi in un tunnel.
«Giovanotto, cosa fai lì impalato? Passami il malloppo! Non ti sei scordato del libro, vero?»
Negai con la testa, allungando la busta con il “malloppo”. Ma come parla?, mi chiesi senza però fare commenti inappropriati. Nonostante fosse in pensione da un pezzo, conservava ancora quella rigidità e severità per cui era nota ai tempi della scuola. Anche allora mi chiamava giovanotto, come se fossi un bischero qualunque. Per noi invece, come per tutte le generazioni che ci avevano preceduto, signorina Ida era e rimaneva per sempre Regina Sole.
L’ultima di sette fratelli, sin da ragazzina era costretta a lavorare nei campi per portare qualche soldo in famiglia. Non lo considerava un sacrificio: stare all’aria aperta le dava un’immensa gioia. Appena finiva il raccolto, nascondeva nel grembiule un pezzo di pane e un libro — preso in prestito dalla padrona che aveva una biblioteca ben fornita — e saltellando correva a sdraiarsi sulla distesa enorme punteggiata da tanti piccoli soli. Era il posto più bello che avesse mai visto! Lì non era una semplice serva, ma poteva essere chiunque, persino una regina. Le era bastato uno sguardo a quel fiore sorridente che si moltiplicava a vista d’occhio per iniziare a fantasticare di indossare un abito bianco, la corona in testa e i riccioli dorati in caduta libera lungo la schiena. Nacque così, ci raccontò commossa un giorno in classe, Regina Sole.
Signorina Ida doveva la sua passione per la lettura e i mondi immaginari alla padrona di casa, una giovane e robusta donna dal passo silenzioso e furtivo che le aveva insegnato a scrivere e leggere. Ogni sera dopocena, si mettevano al tavolo oblungo del salone con i quaderni e le matite in mano a imprimere in stampatello e corsivo le lettere dell’alfabeto. Signorina Ida apprendeva in fretta e in poco tempo non era solo in grado di firmare il proprio nome, ma anche di divorare, partendo dai volumi più adatti alla sua età, una quantità di romanzi impensabili persino per un adulto.
Prima di trasferirsi in città e venire ad abitare nel nostro stabile, signorina Ida faceva la maestra in un villaggio montanaro. Il numero di bambini in classe a malapena superava quello delle dita di entrambe le mani e proprio come accaduto a lei in gioventù, alcuni erano spesso assenti perché il loro aiuto nella raccolta era indispensabile per le famiglie che a stento arrivavano a sfamare tutte le bocche. Per fare in modo che non perdessero l’anno scolastico, signorina Ida andava di casa in casa a impartire lezioni che di solito si svolgevano fuori, all’aria buona che profumava di erba e nocciola. Anche lì, in quel posto sperduto, i campi di girasole aspettavano solo che lei li scoprisse e trovasse in loro il suo antico regno.
Il giorno della mia visita teneva in mano proprio la fotografia che la ritraeva insieme a quella classe unica. Me la fece vedere e con la voce roca e stanca elencò uno a uno i nomi dei suoi alunni. Questi sì che erano tranquilli, non come voi, un vero e proprio terremoto, mi disse sorridendo prima di chiedermi come andavo alle superiori. Non avevo voglia di parlarne, tantomeno di darle una delusione. Mi appellai all’ultimo briciolo di fantasia rimastomi dai tempi d’infanzia. Dopotutto ero a cospetto di una regina e non potevo sfigurare.
Quando la salutai, le promisi che sarei tornato presto a trovarla con un nuovo romanzo di Camilleri sottobraccio e un mazzo di girasoli. Solo al momento dell’addio mi ero reso conto che il vaso sul comodino era vuoto e mi venne d’istinto di chiederle scusa per non averci pensato prima. Mi indicò con la testa la stampa di Van Gogh. Questa basta e avanza, sussurrò.
Fu l’ultima volta che vidi signorina Ida. Qualche giorno dopo il nostro incontro se ne andò nel sonno, in silenzio e con il sorriso sulle labbra, il romanzo che le avevo portato aperto a metà sul petto. Sul comodino accanto a lei, tre girasoli appena raccolti e sistemati nel vaso profumavano di erba e nocciola.