
La piantagione di agave sulle colline era da sempre territorio proibito per i bambini del villaggio. Un cane grosso, nero e feroce ne sorvegliava i confini, ringhiando a chiunque si avvicinasse alla recinzione. Ma ancora più spaventoso del cane era il proprietario. Viveva in una grande casa bianca in cima alla collina, e spesso lo si vedeva passeggiare tra i filari di piante con il fucile sottobraccio, come un castellano che sorveglia i suoi domini. E se mai avesse scoperto un lavorante troppo pigro o, peggio ancora, un intruso, per il malcapitato sarebbero stati guai.
Un pomeriggio di sole Paco si incontrò con i suoi amici nella piazza del villaggio, e dopo un’animata discussione decisero di giocare a nascondino.
Paco si allontanò con l’intenzione di nascondersi sotto un grande automezzo guasto, fermo da settimane sul ciglio della strada che portava alla piantagione. Mentre stava per infilarsi sotto, però, notò un’ombra nera passare di corsa sull’altro lato della strada. Nascosto dal camion, si voltò a guardare e scorse il grosso mastino, che doveva essere uscito dal recinto. Restò immobile, ma il cane dovette percepire la sua presenza, perché annusò l’aria e tornò indietro, dritto verso di lui.
Preso dal panico, Paco iniziò a correre, senza badare a dove andava. Fu così che di lì a poco si trovò la strada sbarrata dalla recinzione metallica della piantagione. Guardò affannosamente a destra e a sinistra, finché notò un piccolo strappo nella rete, da cui doveva essere uscito il cane. Ci si infilò svelto e si addentrò tra i filari di piante di agave. Quando ne trovò una abbastanza grande da nasconderlo completamente, ci si accucciò dietro e attese.
Di lì a poco sentì i passi e l’ansimare del cane, che si fermarono per qualche istante e poi si allontanarono. Osò sbirciare oltre la pianta, e in quel momento una voce lo fece sobbalzare.
«Non preoccuparti, è andato via.»
Paco si guardò attorno, ma non riusciva a vedere nessuno. Poi qualcosa picchiettò sulla sua spalla e lui si immobilizzò e ruotò cautamente gli occhi. Vide così una delle foglie della pianta che, attirata la sua attenzione, tornava a raddrizzarsi. «Sei tu che hai parlato?»
L’agave ridacchiò. «Vedi qualcun altro?»
«Non vedo proprio nessuno.»
«Potrei offendermi nel sentirmi definire “nessuno”» disse la pianta.
Paco arrossì. «Scusami, signora agave, non volevo offenderti.»
«Non c’è bisogno del “signora”» rispose. «E poi sono ancora signorina.»
Paco ebbe la netta impressione che l’agave avesse strizzato l’occhio, pur essendone sprovvista. Rimase per un po’ a parlare con lei, che era vecchia e saggia. La sua vita non era molto avventurosa, ma negli anni aveva visto molte cose. Gli raccontò del vecchio padrone, che era gentile, e di quello nuovo, che invece spaventava tutti, e la costringeva a restare da sola per gran parte del tempo. Scoprì che di solito l’agave non parlava con le persone.
«Perché?» chiese Paco.
«Sembrano così indaffarati che mi secca disturbarli con le mie chiacchiere oziose da vecchia pianta.»
Verso sera Paco riattraversò la rete e tornò al villaggio. Qui i suoi amici lo stavano ancora cercando, perché si era scordato del gioco, ma alla domanda su dove fosse stato rispose: «Mi sono nascosto tanto bene che non mi avete trovato.»
Tornò a parlare con l’agave anche nei giorni seguenti, dopo aver controllato che il cane non fosse nei paraggi. Un giorno se ne stava seduto all’ombra delle sue foglie a sentire il racconto dell’anno in cui era caduta la neve, e aveva coperto di bianco la pianura, le colline e i ciuffi di foglie. All’improvviso udì dei passi pesanti e in lontananza, sopra le piante, vide avvicinarsi un cappello.
«È il proprietario» sussurrò la signorina agave. «Presto, nasconditi.»
Così dicendo, aprì le sue foglie, creando un vuoto nel centro, e subito Paco ci si infilò. Le foglie si richiusero appena in tempo, e l’uomo si fermò confuso davanti alla pianta, certo di aver visto muoversi qualcosa. Fece il giro tutto intorno, ma non trovò niente di insolito, quindi sbuffò, si accomodò meglio il fucile in spalla e si allontanò.
Paco decise comunque di rimanere lì dentro un altro po’, visto che sembrava più sicuro, e ascoltò altri racconti.
Il pomeriggio seguente però, arrivato davanti alla rete, ebbe una brutta sorpresa: qualcuno l’aveva aggiustata, e non poteva più raggiungere la sua amica. Di tanto in tanto tornava comunque a controllare, e un giorno riuscì a scorgerla in lontananza. La pianta aveva infatti messo su un fusto altissimo, che sovrastava tutte le altre piante, e che nel giro di qualche tempo si riempì di fiori. Poi il fusto iniziò a piegarsi verso la rete, fino a sporgere fuori con l’estremità fiorita. Così qualche settimana dopo Paco poté di nuovo parlare con la sua amica.
La voce dell’agave però era flebile e affaticata. «Non durerò ancora a lungo» mormorò, sconsolata.
«Cosa vuoi dire?»
Anziché rispondere, la pianta gli indicò un germoglio che cresceva in cima al lungo fusto fiorito, dicendogli di raccoglierlo.
Paco obbedì e piantò il germoglio nel fazzoletto di terra davanti alla sua casetta. Quando la nuova piantina fu cresciuta iniziò a parlare, o meglio a balbettare parole.
Ogni giorno, dopo la scuola, Paco passava del tempo a conversare con lei, finché la pianta non cominciò a mettere insieme frasi compiute. Essendo così giovane, non aveva molto da dire, così era Paco che le raccontava delle storie, quelle che aveva sentito dagli adulti. Le parlava anche della sua giornata, della famiglia, degli amici. La pianta ascoltava in silenzio, ma di tanto in tanto gli dava dei consigli, sempre molto saggi e utili.
L’agave crebbe e rimase con lui finché fu adulto, a quel punto fiorì e dopo si seccò, ma Paco riuscì a raccogliere un germoglio, che regalò a sua figlia perché lo piantasse nel proprio giardino.
Laura Baldo