
Una macchina scura si ferma sul ciglio di una strada di periferia. L’autista, un uomo grande e grosso, apre lo sportello e appoggia per terra un sacco di iuta dal quale tira fuori un batuffolo nero. Dopo essersi guardato intorno, per avere la certezza che non ci sia anima viva nei paraggi, chiude lo sportello e parte a tutta velocità.
La strada ora è deserta. Un leggero soffio di vento spazza via la scia di polvere depositata al passaggio del veicolo in fuga. Mentre una nuvola grigiastra transita nel cielo, minacciando di offuscare il sole, un miagolio triste si leva dal batuffolo nero che comincia a spostarsi in avanti a passo lento e maldestro di chi non conosce ancora bene il mondo.
Anche se non si direbbe, è un gatto piccolo piccolo, appena separato dalla madre e dai fratelli contro la sua volontà. Non mangia da ore, ha sete, e tanta paura di stare solo. Per quanto si sia sforzato di alzare la vocina e i suoi occhietti si siano riempiti di lacrime, nessuno sembra sentirlo, tantomeno accorgersi di lui. A quanto pare è l’unico essere vivente in quel posto sperduto e dimenticato da uomini e Dio.
Proprio quando ha perso le speranze di riuscire a reggere ancora il peso delle zampette, in seguito a un breve capogiro, come un miraggio nel deserto, appare dal nulla una casa senza porta né vetri alle finestre e con un tetto malridotto cui mancano diverse tegole. Sembrerebbe un edificio disabitato se non ci fosse una coda bianca a penzolare da una delle finestre del secondo piano.
«Chi sei?» chiede una voce dolce prima che appaia una testolina con un ciuffo riccio abbellito da un fiocco azzurro.
Assonnato e ormai a corto di forze, il gatto nero alza una zampa a mo’ di saluto sussurrando a fior di labbra:
«Mi chiamo Tommasino, il gattino, e tu?»
«Sono Saetta, la gatta più veloce di questa baracca e dintorni.»
Fatte le presentazioni, Saetta raggiunge Tommasino con un balzo e lo aiuta a entrare in casa dove, intorno a un falò, ci sono altri due gatti poco più grandi di lui, dalle code colorate e dai lunghi baffi scuri. Saetta intima a uno di loro a portare una ciotola con del latte fresco perché il nuovo arrivato è affamato e loro trattano sempre gli ospiti con riguardo.
Tommasino, grato per la premura della gatta bianca, lecca con avidità il fondo della ciottola fino all’ultima goccia rimasta. Ora che ha recuperato un poco le forze, nonostante la pancia brontoli ancora, si acciambella davanti al fuoco e chiude gli occhi. Cullato dalle chiacchiere dei suoi nuovi amici che vorrebbero fargli tante domande, scivola nel sonno leggero di chi l’ha appena scampata bella, sentendosi al sicuro per la prima volta da quando quell’uomo malvagio l’aveva buttato in strada.
Il giorno dopo Tommasino si sveglia allegro, anche se un po’ malinconico. Gli mancano la mamma e i suoi fratelli, ma soprattutto la signora Rosa, la gattara, e la sua cucina calda e profumata di cannella. A differenza del figlio, è una donna affettuosa con gli animali cui deve non solo quel nome buffo, ma anche la vita. Cosa non darebbe ora per una sua coccola dietro l’orecchio e quella cesta in vimini in cui dormiva sereno accanto al forno a legna.
Appena lo vede in piedi, Saetta gli va incontro e lo saluta con delle fusa calorose. Intimidito, Tommasino abbassa lo sguardo e si passa la zampetta sopra il musetto.
«Come hai dormito?» chiede la gatta bianca con una voce melodiosa arrotolando le parole come se stesse canticchiando. Il ciuffo riccio con il fiocco azzurro vibra ogni volta che sorride.
«Bene» dice il gattino nero e inizia a raccontare dei suoi sogni colorati, della madre e dei fratelli, persino di Rosa e della sua gentilezza. Si guarda, però, dall’ammettere a Saetta che la pancia gli brontola già di primo mattino per non sembrare sfacciato. Per fortuna è lei a tirare fuori l’argomento e a svelargli un grande segreto.
«Questa mattina io e Moro — così si chiama uno degli altri gatti che vivono nella casa abbandonata — siamo andati a caccia di provviste. Abbiamo raccattato qualche pezzo di salsiccia, un po’ di pane, una mezza bottiglietta di latte e, tieniti forte, un topo vero. Vedrai che banchetto stasera!»
Al solo pensiero di mangiare qualcosa di buono e gustoso, i baffi di Tommasino si arricciano. Dopo che Saetta se n’è andata, un’ombra attraversa il volto del gattino nero. Anche se è grato ai nuovi amici per come l’hanno accolto sotto il loro tetto bucato, vorrebbe fare qualcosa per ricambiare. Peccato che sia ancora troppo piccolo per andare a caccia di topi o fare giro nei dintorni. Non sa cucinare, per colpa del figlio Rosa non ha avuto il tempo di rivelargli i suoi trucchi ai fornelli; non sa leggere, per provare una ricetta, ammesso che trovasse un libro del genere.
Pensa e ripensa, gli viene un’idea: Rosa ha sempre detto che aveva una bella vocina e che da grande avrebbe potuto fare il gattante (gatto cantante nel linguaggio felino). Tommasino non ha alcuna esperienza nel campo, ma per Saetta vale la pena almeno di provare.
La sera, mentre la gatta bianca apparecchia sulla coperta di lana davanti al falò che Moro ha acceso per scaldarsi le zampe e le ossa, Tommasino inizia a intonare l’unica canzone che conosce. Le parole dolci non hanno significato preciso, alcune capisce altre meno, però gli basta sentire il cuore battere nel ritmo serrato per rendersi conto quanto è grande il sentimento sbocciato dal nulla in lui.
Saetta lo ascolta in silenzio, gli occhi a forma di cuoricino, il ciuffo con il fiocco azzurro tremante d’emozione. Forse è solo una sensazione passeggera, un momento che il giorno dopo sarà soltanto un ricordo. Forse è troppo grande per Tommasino, e lui troppo piccolo per lei, ma per adesso va bene così per entrambi. Quando nasce, l’amore di un gatto è una canzone da cantare a squarciagola senza pensare al domani.
ma che bella favola a lieto fine. Gli animali si mostrano più saggi degli uomini e si aiutano a vicenda per superare le diifficoltà.
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